Sono quasi 100 mila, di cui oltre metà impiegate irregolarmente. Svolgono le attività più delicate, ma considerate (a torto) di livello inferiore. Sono spesso discriminate, malpagate, sfruttate. E la politica ha fallito clamorosamente, spendendo solo un decimo dei milioni del Pnrr disponibili per alleviare le loro condizioni

 di Ginevra Demaio

In Italia le lavoratrici immigrate sono notoriamente relegate nei gradini più bassi del mercato del lavoro per qualità dell’occupazione, retribuzioni, forme contrattuali, settori di inserimento e mansioni, a causa di un sistema sociale ordinariamente organizzato per divisioni di genere, classe, nazionalità, al cui vertice vi è ancora il maschio bianco di cittadinanza italiana e alla cui base, al contrario, troviamo le donne di cittadinanza straniera, tanto più se povere o irregolari. È quanto accade anche nel settore agroalimentare, non a caso un ambito riconducibile alla cura e alla dimensione della riproduzione collettiva, essendo destinato alla sussistenza alimentare di tutti noi. Come nel lavoro domestico e di assistenza alle persone, anche nell’agroalimentare le lavoratrici immigrate sono esposte ad elevati livelli di isolamento, dipendenza dai datori di lavoro, sommerso (parziale o totale), indistinzione dei tempi e degli spazi di vita e di lavoro, nonché a diffuse forme di sfruttamento (anche grave o sessuale) e di privazione dei diritti più elementari.

Gli archivi Inps registrano in Italia 249.722 operai agricoli non comunitari occupati a fine 2024, il 24,6% della manodopera impiegata nel settore. Per l’82,1% sono uomini, mentre le donne ammontano a 44.754, guadagnando in media 8.567 euro l’anno, in assoluto la paga più bassa del settore (e del mercato del lavoro straniero). Ai numeri ufficiali, poi, si affianca l’ampia area del sommerso, stimata da ActionAid in oltre 50.000 lavoratrici straniere irregolarmente impiegate in agricoltura. Le più numerose tra le non comunitarie iscritte all’Inps sono le albanesi (28,6%), cui seguono marocchine (13,3%), indiane (9,8%), ucraine (9,1%) e nigeriane (5,2%). Vanno poi considerate le tante lavoratrici dell’Est Europa (soprattutto Romania e Bulgaria) che, in quanto comunitarie, non sono distinte negli archivi dell’Inps. Queste, grazie alla loro libertà di movimento, lavorano stagionalmente nel settore agricolo italiano per poi rientrare a casa, in un movimento circolare di andate e ritorni.

 

La trappola di un modello rurale storico

Solitamente alle donne sono riservate le fasi più delicate della catena agro-alimentare: la raccolta dei prodotti orto-frutticoli, la loro trasformazione, il lavaggio, il confezionamento, l’incassettamento o l’immagazzinamento. Tutte attività (a torto) ritenute di supporto e, in alcuni casi, considerate dagli stessi connazionali alla pari di un dovere familiare o comunitario, secondo un modello rurale che ha storicamente assegnato alle donne la cura della famiglia e il lavoro nei campi, in un impegno che non vede soluzione di continuità. In nome di un minore valore dei compiti loro richiesti o della confusione tra questi e i doveri familiari, sono sfruttate, mal retribuite, costrette a lavorare per ore in condizioni insalubri (pioggia, caldo, freddo), a contatto con fitofarmaci e agenti chimici velenosi, senza servizi igienici, acqua, elettricità, ricattate (soprattutto se irregolari) ed esposte a gravi abusi, anche sessuali.

Sono lavoratrici discriminate in quanto donne, in quanto straniere, ma anche perché prive dei documenti di soggiorno o necessitate a rinnovarli o perché povere o perché vittime di tratta o, ancora, perché sole o, al contrario, perché madri/mogli investite della responsabilità di mantenere la famiglia. In una tale condizione di ricattabilità, imprenditori agricoli e caporali le considerano più controllabili, inclini alla sottomissione, capaci di resistere a condizioni di lavoro molto dure e alla vita in luoghi isolati, privi di trasporti pubblici e in abitazioni fatiscenti. Il tutto a fronte di paghe ben al di sotto dei limiti di legge (e di quelle dei colleghi maschi), spesso senza contratto e senza accesso a ferie, permessi, riposi settimanali, malattia e altri diritti del lavoro. Anche quando le contrattualizzano, gli imprenditori agricoli dichiarano meno giornate di quelle svolte, pagando meno di quanto dovuto e causandone l’esclusione da tutte quelle misure di welfare riconosciute solo se si superano le 51 giornate di lavoro annue (sussidio di disoccupazione agricola, maternità). E così, se perdono il lavoro o restano incinte, si ritrovano prive di tutele e ulteriormente esposte a ricattabilità e vulnerabilità (economica, abitativa, sanitaria, relazionale, familiare).

 

Il fallimento della politica e le dimissioni del Commissario… per sessismo

È allora essenziale che le politiche – nazionali e locali – ne sostengano l’emersione, la regolarizzazione giuridica, la visibilità e l’accesso alle tutele sociali e sanitarie. Governo, forze di polizia, associazioni di categoria, terzo settore, sindacati sono chiamati ad attivarsi con interventi diffusi – e coordinati a livello nazionale – che agiscano su più piani: politiche del lavoro, politiche sociali, politiche migratorie, politiche agricole, politiche di genere e politiche abitative; ma anche unità mobili che raggiungano le donne lì dove lavorano, reti di trasporto nelle zone rurali, servizi sociali e sanitari di prossimità, aiuti per la cura e l’istruzione dei figli e tutto quanto concorra a migliorarne le condizioni lavorative, sociali e familiari.

Prendiamo tristemente atto, invece, che dei 200 milioni di euro destinati dal Pnrr al superamento delle baraccopoli – stanziati nel 2022 e da utilizzare entro giugno 2026 –, a distanza di 3 anni ne sono stati spesi meno di 20 (appena il 10%) e che, dei 37 progetti presentati dai Comuni italiani, quelli approvati sono soltanto 11. Un fallimento gravissimo, per dimensioni (restano esclusi dai finanziamenti proprio i “ghetti” più grandi, quali quelli di Borgo Mezzanone e Torretta Antonacci) e conseguenze sulle persone, ancora una volta lasciate in balia del mercato e dei datori di lavoro, con tutto ciò che abbiamo visto significare per le donne.

Nel frattempo, a novembre del 2025, il Commissario straordinario per il superamento degli insediamenti abusivi per combattere lo sfruttamento dei lavoratori in agricoltura, Maurizio Falco, si è dimesso, non per i suddetti ritardi ma a seguito di frasi offensive e sessiste verso la giornalista Costanza Tosi che gli chiedeva conto dell’operato svolto. Resta da augurarsi che il governo nomini al più presto un nuovo Commissario che porti a termine almeno gli 11 progetti approvati, ma lascia basiti e scandalizzati non solo il totale fallimento politico, ma anche che il rappresentante di una commissione pubblica sia caduto proprio a causa di esternazioni sessiste e sprezzanti, guarda caso, nei confronti di una donna.

Ginevra Demaio è una ricercatrice di IDOS.

Questo articolo è una sintesi del capitolo “Le lavoratrici migranti nel settore agricolo: l’eccezione che conferma la regola” da lei scritto per il  Quaderno della Fondazione Placido Rizzotto “(dis)uguali. La condizione di pluri-sfruttamento delle donne in agricoltura”.

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